mercoledì 25 novembre 2009

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La generazione "lavoro zero"

Disoccupati, disoccupati, disoccupati. La Grande Crisi ci sta scaricando una valanga di senza lavoro, più giovani che vecchi. Molti di più di quel milione che lasciò sul terreno la recessione del 1993. Il mercato finanziario globale si sta ricomponendo, qua e là ci sono segnali di ripresa della produzione e pallidi risvegli dei consumi, rimbalzi davvero tecnici, con tutti i governi che, infatti, non possono ancora mollare le politiche di stimolo all’economia. Ed è così che questa si sta trasformando nella crisi del lavoro, non solo negli Stati Uniti con i suoi 15 milioni di disoccupati. Anche in Italia, dove dal terzo trimestre del 2008 ad oggi sono andati in fumo più di 560 mila posti di lavoro soprattutto tra gli "under 40", dove nei primi nove mesi dell’anno è stato presentato oltre un milione e mezzo di domande per accedere all’indennità di disoccupazione e circa 60 mila per quella di mobilità, dove il ricorso alla cassa integrazione è esploso con aumenti nell’ordine del 3400 per cento e più, a seconda del settore produttivo, e dove, infine, il tasso di disoccupazione complessivo è salito al 7,4 per cento, e quello giovanile dal 18 al 25 per cento.
Non è solo il classico effetto ritardato del recupero dell’occupazione rispetto a quello della produzione, studiato e previsto dagli economisti. Questa volta c’è di più, perché stiamo vivendo la prima recessione nel mercato del lavoro dualistico: da una parte i lavoratori standard, tendenzialmente protetti da un sistema di ammortizzatori sociali ideati in pieno Novecento, ritagliati sul lavoratore maschio della grande impresa del nord industriale; dall’altra gli atipici, giovani, flessibili, precari, praticamente senza tutele, figli dell’apartheid contrattuale, quelli, insomma, della generazione paraoccupata o "zero lavoro", poco rappresentata e assai poco visibile. La crisi sta colpendo gli uni e gli altri, imbriglia i primi nell’illusione della cassa integrazione presa a dosi massicce, collocandoli ancora tutti tra le file degli occupati per quanto a orario ridotto se non azzerato; abbandona i secondi, tagliando forse definitivamente la prospettiva dell’ingresso nella cittadella, un tempo, degli insiders. È una silenziosa mutazione quella che sta avvenendo nel mercato del lavoro. I "vecchi" occupano le fabbriche con le ciminiere spente, i giovani si ripiegano, licenziati a riflettori spenti.
Era dal 1995 che la quota di lavoratori dipendenti non diminuiva più nelle indagini trimestrali dell’Istat. Dopo quasi quindici anni proprio quelli coincidenti con l’impetuosa cavalcata del lavoro flessibile, spinto dal pacchetto Treu e poi ancor più dalla legge Biagi è riaccaduto nel secondo trimestre del 2009: 0,3 per cento su base annua, pari a 168 mila posti di lavoro cancellati. È successo spiega il Cnel nel suo "Notiziario sul Mercato del lavoro" perché la moderata crescita dell’occupazione permanente (+ 0,9 per cento) non è riuscita a compensare il tracollo dei contratti a tempo determinato: 8,3 per cento pari a una perdita di 191 mila posti. E qui c’è un aspetto tipicamente italiano della crisi del lavoro: com’ era facile prevedere le aziende hanno cominciato a tagliare i livelli occupazionali non rinnovando i contratti a tempo una volta scaduti. I segnali si erano già visti alla fine del 2008, ai primi effetti dello tsunami finanziario globale sull’economia reale. Ora quei segnali si stanno consolidando.
E sono stati i giovani i primi ad essere espulsi dal mercato, dal momento che oltre il 75 per cento dei contratti a tempo determinato riguarda la fascia di età compresa tra i 15 e i 34 anni. Per questa via sta progressivamente calando la quota di lavoro a tempo determinato sul totale dei dipendenti (un punto in meno in percentuale nel primo semestre del 2009 rispetto allo stesso periodo del 2008) e anche dato assai più preoccupante la percentuale di giovani (sempre tra i 15 e i 34 anni) sul mercato del lavoro attivo. Lo certifica l’Istat nel suo ultimo "Annuario statistico 2009", presentato venerdì scorso: nella classe più giovane, quella cioè tra i 15 e i 34 anni, l’occupazione registra nella media del 2008 una riduzione dell’1,8 per cento (pari a 127 mila posti cancellati). I giovani da noi sono paraoccupati o senza lavoro. Il tasso di occupazione (indice molto più significativo del tasso di disoccupazione) tra la popolazione giovane rimane lontano dalla media europea: abbiamo il 58,7 per cento contro un tasso medio Ue del 65,9 per cento, e non si può dire che abbiamo i migliori processi formativi. Fa impressione constatare che questo divario si sia allargato proprio nell’ultimo ventennio, quello che coincide anche con la nostra flessibilizzazione del mercato del lavoro, che avrebbe dovuto dare spinta e nuove opportunità all’occupazione. Perché fino alla fine degli anni Ottanta, come dimostra nel suo recente pamphlet il demografo Masimo Livi Bacci, "Avanti giovani, alla riscossa" (Il Mulino), la partecipazione al lavoro dei maschi e le femmine italiane di età compresa tra i 20 e i 24 anni era simile a quella dei loro coetanei francesi, tedeschi e spagnoli. Ora è più bassa di 1020 punti. Un’enormità, «una perdita netta per la società», come ha scritto lo stesso Livi Bacci. Un fenomeno che incide direttamente pure sui nostri bassi tassi di natalità.
La crisi ha tagliato quasi il 10 per cento dei contratti a tempo determinato, oltre il 12 per cento dei contratti di collaborazione (co. co. pro), centinaia di migliaia di false "partite Iva" o presunto lavoro autonomo. Ha tagliato il lavoro (precario) dei più giovani. Gli economisti Tito Boeri e Vincenzo Galasso ("Contro i giovani", Mondadori), d’altra parte, hanno calcolato che chi ha tra i 16 e i 24 anni ha oggi un rischio di disoccupazione quattro volte più alto di chi ha superato i 30 anni. Oltre a guadagnare decisamente di meno rispetto ai lavoratori maturi.
Così sono proprio i giovani ad aver ingrossato le file dei disoccupati, cioè di coloro che senza un impiego lo stanno concretamente cercando. Nel primo semestre del 2009 ultimi dati dell’Istat, perché i prossimi arriveranno tra poco meno di un mese i disoccupati italiani sfiorano i due milioni di unità (1 milione 912 mila). Con un aumento di 179 mila persone, pari ad un incremento del 10,3 per cento rispetto al medesimo periodo del 2008. E dall’analisi effettuata dal Cnel emerge che ben 100 mila, cioè più della metà, dei nuovi disoccupati sono persone con un’età inferiore ai 35 anni. Quindi: prima giovani precari, poi giovani disoccupati. Mai lavoratori a tempo pieno e indeterminato. Un tragitto segnato.
Nel complesso sono cresciuti di più gli uomini disoccupati (147 mila, + 17,7 per cento) rispetto alle donne (32 mila, + 3,6 per cento). Ma è di rilievo osservare che i disoccupati sono aumentati in tutte le aree tranne che nel Mezzogiorno dove ormai prevale l’effetto scoraggiamento: non si cerca più il lavoro perché si è delusi dagli scarsi risultati ottenuti. Ci si butta, molto probabilmente, nel nero. È riemerso in questi mesi il fenomeno dell’inattività che, per così dire, "inquina" il dato relativo a un incremento moderato del nostro tasso di disoccupazione (dal 6,8 al 7,4 per cento). Certo si può dire (come fa più di un ministro) che questo tasso è assai più basso di quello spagnolo, per esempio, che si avvicina al 20 per cento, però bisognerebbe anche dire che nei primi sei mesi di quest’anno sono 492 mila le persone (+ 1,9 per cento rispetto all’anno prima) che si sono scoraggiate, hanno deciso di non cercare più lavoro, si sono rese invisibili, scomparendo dai radar delle rilevazioni statistiche. Più donne che uomini, in questo caso.
Visti più da vicino i dati dell’Istat raccontano del mutamento in atto nel mercato del lavoro, del suo paradossale invecchiamento proprio in una fase di crisi. Che, questa volta, non risparmia quasi nessun settore. Perché dopo un decennio di crescita continua anche il terziario, trasformatosi in una sorta di areatampone dell’emorragia di posti persi nell’industria, ha cominciato a ridurre l’occupazione nei servizi alle imprese, nelle comunicazioni, nel commercio: 0,8 per cento nel complesso rispetto alla prima metà del 2008. Eppure, quasi disegnando un percorso lineare in un paese per vecchi, c’è un comparto che batte la crisi: è quello dei servizi alla persona. Qui si segna un incremento significativo, +7,8 per cento. Sono i nonni che hanno bisogno delle badanti straniere. E così i lavoratori non italiani sono quelli che aumentano.

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