sabato 28 novembre 2009

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Guidi: "Sarà meglio che i ragazzi tengano pronta la valigia per l’estero" L’INTERVISTA

«Se fossi ministro dell’università imporrei che lauree come ingegneria e economia fossero concesse solo a chi ha passato sei mesi a lavorare all’estero. I giovani devono capire che solo sapendo vivere fuori troveranno un posto e che l’Italia sarà la casa dove tornare ogni tanto». Guidalberto Guidi, amministratore delegato della Ducati energia, ha da tempo un occhio attento alle vicende dell’industria è stato vicepresidente di Confindustria e oggi ha un osservatorio privilegiato dato che guida l’Anie, l’associazione delle imprese elettromeccaniche. Qualche tempo fa è entrato nel Comitato Scientifico della Fondazione Politecnico di Milano. Sul futuro del lavoro in Italia non ha molti dubbi: «Qui è destinato a sparire il 50% del settore manifatturiero e se non ci si prepara a considerare la Cina, l’India, il Brasile, come luoghi di lavoro e l’inglese come la propria lingua non si avrà un grande futuro».
Colpa della crisi?
«Non solo. La crisi accelera un tendenza già in atto da qualche anno e ci costringe a fare i conti prima con la realtà».
La ripresa non cambia le cose ridando qualche ottimismo?
«Non si tratta di pessimismo od ottimismo. Basta guardare i dati e le realtà locali. Ieri ero vicino Bologna in un paese con 12.000 abitanti: c’erano 1200 cassaintegrati. Le cronache sono piene di fabbriche che stanno chiudendo. Parlo dell’Italia da Roma in su. Figuriamoci per quella del Sud».
Ma i suoi dati che cosa dicono?
«Che in meno di un anno l’industria meccanica ha avuto cali del 30% del fatturato per i più fortunati, e fino al 70 gli altri. E stiamo parlando di aziende che sono la punta del sistema industriale quanto a spese di ricerca. Dopo c’è stato qualche segno di ripresa, o meglio la fine della caduta. Ma se va bene ci stabilizzeremo intorno ad una perdita del 30%».
La situazione è destinata a peggiorare?
«Sì, perché cali di questo genere non possono essere sopportati da molte aziende, soprattutto se poco patrimonializzate. C’è un universo di piccole e medie imprese, che non hanno la possibilità di sopravvivere con questa domanda e purtroppo sono destinate a morire».
I piccoli accusano le banche…
«Non credo che siano la causa. Ce la pigliamo con il credito: ma c’è una miriade di imprese che non ha portafoglio, non ha ordini da portare in banca: e la crisi si avvita passando da loro ai fornitori che non vengono pagati».
Metà dell’industria manifatturiera destinata a sparire. Non le pare pessimismo?
«Vorrei sbagliarmi ma secondo me è così. Abbiamo costi di produzione fuori mercato. E non è solo questione di offerta: nel complesso dell’industria produciamo troppo rispetto a quello che il mondo può assorbire, e con un dollaro che oscilla intorno 1,50 sull’euro scompare un’intera area come possibile mercato».
Ma c’è la crescita di mercati come Sudamerica, India e Cina…
«Ah sì, quella c’è. Ma ormai hanno imparato la lezione dell’industrializzazione e producono quel che serve in casa. Guardi il mondo delle moto: sono state un settore di punta in Italia, i giapponesi a suo tempo hanno comprato nostri componenti e hanno imparato da noi a fare moto. Eppure il settore della componentistica italiana sta evaporando, per usare un eufemismo. Pur in presenza di un mercato cinese che vale 27 milioni di pezzi, cioè dieci volte quanto quello russo e americano».
Ma non c’è un primato, almeno per la meccanica? Qualcuno riprenderà ad investire quando la crisi si attenuerà?
«Certo ci saranno alcune aziende che manterranno le loro nicchie e i loro primati tecnologici. Ma tutto questo vale per pochi. Per la massa dei produttori no. Anche in questi settori i paesi che si sono industrializzati hanno imparato: noi della Ducati per lo stabilimento indiano abbiamo comprato macchine prodotte laggiù con un costo pari al 10% di quello che avremmo pagato qui. E poi anche gli altri paesi sono andati avanti: abbiamo trasferito alcune attività dalla Croazia e l’operazione è stata fatta dagli operai croati che per giunta sanno l’inglese quando io a volte faccio fatica con i miei ingegneri».
Costi troppo alti, aziende che portano altrove le produzioni: questo processo va avanti almeno da dieci anni e molte industrie sono sopravvissute e anche cresciute. Non sarà così anche questa volta?
«Non credo, e non lo dico adesso sulla scorta dei dati della crisi economica. E da almeno tre anni che sostengo che c’è una mutazione genetica e un cambiamento strutturale per il nostro sistema manifatturiero. Non conta più dove si produce: per la meccanica la certificazione di qualità si fa anche in India. Certo, tutti noi in questi anni abbiamo potuto trarre profitto e anche qualche illusione dalla una crescita importante dall’ industrializzazione di paesi come Cina e Brasile…Ma hanno imparato in fretta e le cose se le fanno da loro».
Alcuni dicono che la delocalizzazione si è fermata. E’ così?
«Alcuni lo dicono. Ma non ho visto in questi anni industrie che siano tornate indietro e penso che sia ora di affrontare con realismo e, se necessario, anche con cinismo questi problemi».
Come quando di fronte ad un pubblico di professori e studenti ha detto chiaro e tondo che se si vuole trovare lavoro è meglio far la valigia e andare all’estero?
«Sì, e lo penso. Volevo rispondere a chi sostiene che questo non è un Paese per giovani. Oggi non è questo il problema. Purtroppo nel sistema italiano, e per molti motivi, scende la possibilità di occupare giovani. E questi devono mettere in conto un cambio di mentalità se vogliono trovare un’occupazione».
Il manifatturiero non è tutto, e in fondo è un po’ scontato che il peso dell’industria scenda: ci sono il terziario, l’edilizia…
«Certo: c’è il turismo e così via. Ma non vedo l’Italia sulla via per diventare un centro di servizi finanziari, tipo Londra. Né un futuro nel settore immobiliare. Il terziario italiano è sempre stato un complemento del sistema industriale e la riduzione si ripercuoterà anche su questo: a meno di non immaginare un valanga di avvocati e commercialisti occuparsi di liti di condominio».
Quindi valigia in mano?
«Sì, è soprattutto nella testa. Il futuro è in quei Paesi che stanno crescendo, in Cina, in India, in Brasile e in quelle industrie italiane che, multilocalizzate, sapranno rispondere alla sfida del mercato alzando l’asticella tecnologica dei prodotti. Quindi chi vuole trovare lavoro deve cambiare mentalità, capire che l’Italia sarà un posto magari dove tornare ogni sei mesi, essere abituato a parlare l’inglese, e possibilmente anche un’altra lingua, come la propria, e pensare da ora in avanti che lauree come quelle in scienza della comunicazione sono anni impiegati in un arricchimento personale più che nella formazione».

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